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domenica 31 agosto 2014

L'abbazia di S.Ippolito, Monticchio

L'abbazia di S.Ippolito, Monticchio


Le rovine di questo sito appartengono a due chiese distinte parzialmente sovrapposte, che non hanno altro in comune se non il tipo di muratura a pietrame informe.
La prima chiesa presentava un'impianto a triconco a cui era anteposto un doppio nartece. Il nartece interno era separato da quello esterno da cinque pilastri a pianta quadrata a cui corrispondono, sui muri perimetrali, una serie di lesene collegate dallo sviluppo degli imbotti delle relative crociere. Il tutto era preceduto da un ampio atrio rettangolare. I muri laterali del nartece si prolungano infatti senza soluzione di continuità fino all'altezza della torre campanaria poggiando direttamente sul terreno senza fondazioni giacchè – al di fuori del nartece – non dovevano più esercitare una funzione portante ma solo quella di circoscrivere uno spazio scoperto.


Alle estremità NE e SE del nartece si trovano due absidiole che addolciscono il raccordo tra il muro perimetrale del nartece e quello della trichora. Non vi è certezza ma, molto probabilmente, lo spazio centrale quasi quadrato della trichora era sormontato da cupola.
Crollata o andata in rovina questa prima costruzione chiesastica, furono abbandonati i resti del nartece e del triconco e nell'atrio fu ricavata una chiesa a navata unica. Ai lati di questa si notano in effetti due ambienti rettangolari – che potrebbero far pensare ad una pianta a tre navate – ma i muri divisionali appaiono continui, senza tracce di arcate o di aperture, eccetto che nella zona presbiteriale, dove si rilevano i segni di una modesta porta di comunicazione tra la chiesa e l'ambiente laterale destro.

La freccia rossa indica i resti dell'impianto trilobato della chiesa più antica, quella nera l'abside della chiesa più recente. Sullo sfondo si staglia la sagoma massiccia della torre campanaria.
 
Ad ulteriore conferma della trasformazione avvenuta, è l'osservazione che l'abside della nuova chiesa è realizzato in breccia su un muro rettilineo preesistente (quello del nartece del vecchio edificio). La costatazione che tra il pavimento dell'abside della nuova chiesa e quello del nartece della precedente ci siano circa 2 m. di dislivello fa inoltre escludere che tra i due edifici sia mai esistita una comunicazione.

Nartece della chiesa trilobata
 
Dalla spoliazione dell'edificio si è salvato un grande omfalo pavimentale costituito da lastre di pietra calcare bianca e rossa.
Sull'angolo destro della facciata occidentale è completamente incorporata senza alcun aggetto una torre. Non è chiaro se questa sorse all'origine come struttura difensiva isolata o insieme all'atrio della prima chiesa, è comunque antecedente alla seconda chiesa giacchè appare parzialmente incorporata dall'erezione del suo muro divisionale. La torre risulta inoltre collegata ad un ambiente rettangolare absidato che si trova a pochi metri dalla torre.

Interno della chiesa a navata unica. In fondo la parete absidale

L'ipotesi più probabile è che la chiesa più antica – databile tra il VII ed il IX secolo – sia stata il katholikon di un monastero basiliano preceduta da un atrio sistemato a giardino molto in uso nelle chiese monastiche. Ipotesi confortata anche dalla dedica a Sant'Ippolito, di origine asiatica ma introdottosi con l'autorità del teologo nella comunità romana, il primo antipapa (217-235) della storia e martire, considerato dai monaci greci come un campione dell'ortodossia (1).
Con la progressiva espulsione dei bizantini dall'Italia meridionale, anche i monaci basiliani abbandonarono i loro monasteri e furono soppiantati dai benedettini che godevano della protezione normanna. Alla seconda metà dell'XI secolo (Melfi si arrende ai Normanni nel 1041) potrebbe quindi risalire l'edificazione della chiesa a navata unica.
Il complesso abbaziale fu gravemente danneggiato dal terremoto del 1456 che provocò anche la morte di 50 monaci ed il successivo abbandono.

A Sud della chiesa più recente è stato messo in luce quasi completamente il chiostro, occupato da un cimitero di cui sono state indagate otto sepolture, tutte in fossa terragna, di forma antropomorfa, orientate EW / NW, in diversi casi destinate a deposizioni plurime con individui in posizione supina, con le braccia piegate sui fianchi o all’altezza del torace e piedi incrociati e prive di corredo. Attualmente, i dati archeologici riferibili a pochi frammenti di ceramica e ad una moneta di età federiciana consentono di datare la frequentazione del cimitero monastico ad un periodo compreso tra il XIII e il XV sec. d.C.
Nell’area ancora più a sud delle precedenti fabbriche sono state messe in luce nuove e complesse strutture funzionali relative ad un ampliamento del monastero avvenuto in età normanno-sveva.
Di un ulteriore edificio di culto monoabsidato orientato EW, in gran parte esteso sotto l’adiacente proprietà privata, fa parte un abside ampia circa 3 metri, all’interno della quale è presente la base in muratura di pietrame dell’altare. Frammenti di intonaco e laterizi dipinti, alcune monete tra cui un follis anonimo bizantino, pochi frammenti ceramici ed elementi architettonici, testimoniano una frequentazione dell’edificio tra XI e XII secolo, mentre alcuni frammenti di ceramica invetriata policroma e un architrave decorato a rilievo testimoniano un attardamento nella frequentazione della struttura ai secoli XIII-XV.

Nello spazio retrostante e laterale all’edificio si distribuisce un vasto cimitero, la cui fase più recente, coeva con la chiesa appena descritta, restituisce materiali di corredo, soprattutto accessori dell’abbigliamento personale degli inumati, pochi frammenti di ceramiche e vetri e monete che ne attestano la frequentazione tra la prima metà del XII secolo e la metà del XIII. Diverse sono le tipologie di contenitori funerari: tombe a fossa terragna, tombe con tagli rivestiti da blocchi lapidei o tufo e destinate ad inumazioni plurime, diversamente orientate NS ed EW in posizione supina, con le braccia portate all’addome e le mani incrociate.
Tre setti murari delimitano il cimitero, uno dei quali, orientato EW, presenta una superficie affrescata, parzialmente conservatasi ed interessata da un motivo policromo raffigurante una scacchiera a rombi obliqui in giallo e nero; la presenza di tale elemento decorativo testimonia l’esistenza di una struttura molto più articolata ancora da esplorare.

Infine, dietro l’abside della chiesa, una estesa chiazza di bruciato e numerosi residui della lavorazione del bronzo testimoniano la presenza di un impianto produttivo definito da una struttura in pietre e malta, orientata EW, da una piccola area con un apprestamento di pietre e concotto di forma ovale e da una buca da palo verosimilmente funzionale ad una copertura provvisoria. In assenza di reperti archeologici datanti, è ipotizzabile il suo impiego in età tardomedievale, forse in concomitanza con la defunzionalizzazione della chiesa stessa.


Note:

(1) Nato probabilmente in Asia Minore e successivamente trasferitosi a Roma, Ippolito si oppose all'eresia modalista propugnata da Noeto di Smirne che insisteva sull'unità di Dio e riteneva il Padre e il Figlio mere manifestazioni (modi) della Natura Divina. Per questa ragione, accusandolo di non contrastare l'eresia, censurò fortemente l'operato di papa Zefirino (198-217) dipingendolo come un uomo debole, indegno di guidare la Chiesa e strumento nelle mani del suo segretario, l'ambizioso ed intrigante diacono Callisto (Ippolito, Philosophumena, IX, 11-12). Quando, alla morte di papa Zefirino, fu eletto al suo posto proprio Callisto, Ippolito si decise per lo scisma e si fece eleggere antipapa (il primo nella storia della Chiesa) da una ristretta cerchia di seguaci. Lo scisma si protrasse anche dopo la morte di Callisto (222) sotto i pontificati di Urbano I (222-230) e Ponziano (230-235). Nel 235 l'imperatore Massimino il Trace avviò delle persecuzioni anticristiane dirette principalmente contro i capi della Chiesa e fece deportare Ippolito e Ponziano in Sardegna dove entrambi morirono di stenti e di privazioni. Secondo la tradizione cristiana prima di morire i due si riconciliarono ponendo fine allo scisma. Le spoglie di Ippolito vennero quindi traslate a Roma e sepolte nel campo Verano sulla via Tiburtina dove nel 1551 fu ritrovata  - fortemente danneggiata e quindi anche pesantemente restaurata dopo il ritrovamento ) una statua a lui attribuita oggi conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. 

S.Ippolito, III sec. c.ca
Biblioteca Apostolica Vaticana
 
La statua fu ritrovata dall'antiquario e scultore napoletano Pirro Ligorio priva di braccia e testa che egli provvide a reintegrare. Anche la parte originaria, ad ogni modo, risulta dall'assemblaggio di due tronconi di statue diverse - appartenenti entrambi molto probabilmente a statue di figure femminili e riferibili al II secolo - operato nel III secolo, epoca in cui fu anche inciso sui fianchi del sedile l'elenco delle opere di S.Ippolito.



 


sabato 30 agosto 2014

Il complesso della SS.Trinità di Venosa: l'Incompiuta

Il complesso della SS.Trinità di Venosa: l'Incompiuta

La zona del coro con le cappelle radiali

Il potere e l'importanza del complesso venosino della SS.Trinità (cfr. parte prima) nell'ambito delle fondazioni benedettine dell'Italia meridionale crebbero di pari passo con il programma di rifondazione politico-ecclesiastica in senso latino che i Normanni intrapresero - in accordo col pontefice Niccolò II (1059-1061) - in quelle regioni ancora intrise di cultura e tradizione greco-bizantina.
Particolarmente determinante si rivelò tuttavia la scelta, operata da Roberto il Guiscardo attorno al 1069, di tumulare nella prima chiesa abbaziale - accanto ai resti del fratello e predecessore Umfredo - anche quelli degli altri fratelli : Guglielmo detto Braccio di Ferro, iniziatore della conquista normanna del Meridione e Drogone. Il ruolo di mausoleo dinastico così conferito alla Trinità venne ancor più rafforzato nel 1085 dalla sepoltura dello stesso Guiscardo voluta dalla consorte Sichelgaita e favorita dall'abate Berengario, giunto dal monastero normanno di Saint-Évroul-sur-Ouche (antica Uticum) attorno al 1063.
Sulla base dell'accresciuta importanza dell'abbazia si giustifica il progetto di costruire un altro edificio di culto, più monumentale e complesso del primo (destinato verosimilmente all'abbattimento, una volta completato quello nuovo) e che avrebbe dovuto inglobare tutta l'originaria zona del presbiterio nella parte terminale della navata verso la fronte, procedendo di una ο due campate oltre quelle già previste nel corpo longitudinale fino a raggiungere una lunghezza di oltre 140 m.


La nuova chiesa, caratterizzata da un grandioso impianto, con transetto ben distinto (unito alla navata da un inusitato - almeno per l'Italia - piliere dallo straordinario capitello a foglie di acanto), coro molto profondo a tre cappelle radiali ed ampio ambulacro semicircolare prevedibilmente coperto a volta - venne concepita secondo modelli architettonici senz'altro importati dai monaci fatti giungere dai luoghi d'origine della dinastia normanna al potere, dove erano stati già adottati con successo sin dai primi decenni dell'XI secolo nelle cattedrali di Conques, Tours, e in varie chiese abbaziali. Tale schema architettonico, definito franco-normanno, fu adottato in Italia meridionale anche per altri due fra gli edifici sacri più significativi eretti dai nuovi conquistatori: la cattedrale di Aversa, fondata da Riccardo Drengot e conclusa prima del 1090 da suo figlio Giordano e quella di Acerenza, più tarda di qualche decennio.
Elemento caratteristico della chiesa venosina è l'utilizzo su vasta scala di materiali di reimpiego tratti dalle rovine della colonia romana di Venusia – fondata nel 291 a.C. Dal console L. Postumio Megello - e destinati al rivestimento (interno ed esterno) delle pareti.

Il portale che si apre nel braccio settentrionale del transetto sormontato da una lastra lapidea di recupero

I lavori di costruzione dell'Incompiuta (la nuova chiesa non verrà infatti mai terminata) iniziarono durante il regime abbaziale di Berengario (1066-1096) e prevedevano la costruzione del perimetro esterno, del transetto sporgente, e la sistemazione dell’area del coro con la posa in opera dei pilastri del deambulatorium. Il coro, del tipo a deambulatorio con cappelle radiali, appare molto simile a quello della cattedrale di Acerenza.


Il deambulatorio

La nuova chiesa avrebbe dovuto sostituire completamente la prima, che sarebbe stata demolita, e non integrarsi ad essa in un unico complesso.
Sotto il regime dell'abate Pietro II Divinacello (1140-1156) i lavori, precedentemente interrotti, ricevettero un nuovo impulso con la posa in opera delle cinque colonne e del piliere polistilo nella navata meridionale della chiesa; della fila di colonne, eretta su un lungo muro di fondazione, una non presenta il capitello, così come anche il piliere polistilo.

Il piliere polistilo

Il XII secolo, con il passaggio dalla dominazione normanna a quella sveva, si chiude però con uno stato di decadenza per l’abbazia della SS. Trinità, con i suoi abati interessati più alle entrate economiche derivanti dai possedimenti del monastero, che all’aspetto spirituale, e ciò doveva riflettersi anche sullo stato materiale del cenobio, con la definitiva sospensione del cantiere dell’Incompiuta e la rovina degli altri corpi di fabbrica annessi al complesso monastico.
Durante il periodo in cui il complesso appartenne ai cavalieri di S.Giovanni (1297-1808) viene realizzato o portato a compimento il portale del lato meridionale. Sormontato da un arco semicircolare lunato, recante un bassorilievo della dextera dei entro il nimbo, ed un’iscrizione benaugurale; sulla chiave di volta dell’arco entro un tondo, l’immagine dell’Agnus Dei, simbolo dei Cavalieri di San Giovanni.

Il Portale meridionale

Nel XVI secolo venne costruito sul lato destro il grande campanile a vela. Sul lato rivolto verso l’interno dell’Incompiuta, poco al di sotto del livello delle campane, si individua un camminamento aggettante in pietra, sostenuto da una serie di archetti pensili su mensoline lapidee incassate nella muratura.

Il campanile

Il complesso della SS.Trinità di Venosa: la chiesa vecchia

Il complesso della SS.Trinità di Venosa: la chiesa vecchia


Nella zona settentrionale dell’area dove si trovano i resti della basilica esterna sorse un secondo edificio ecclesiastico, dalla pianta basilicale complessa. Dopo la rasatura alla medesima quota, le preesistenti strutture d’età romana vennero interrate e ricoperte dalle strutture di fondazione.
Dal punto di vista planimetrico, nella fase paleocristiana (V-VI sec.), la chiesa vecchia si configura come un edificio a tre navate, con un transetto e l’abside dotata di un deambulatorio.

La fase paleocristiana della chiesa vecchia
 
Le navate sono scandite da due file di sette pilastri che reggono archi a tutto sesto. Le murature sono costruite in un opus listatum irregolare, con due corsi di pietre, alternati ad un corso di laterizi (questa tecnica è visibile all'esterno, in particolare sul lato N, nella parte inferiore del muro perimetrale della chiesa, e si conserva per un’altezza di circa 1 m, a partire dalla quota di spiccato del marciapiede moderno addossato alla parete).
La zona absidale presenta una sistemazione molto particolare, con una prima abside ampia quanto la navata centrale, nella quale si aprono due gruppi di quattro aperture; la seconda abside, concentrica alla prima, ampia quanto l’intera chiesa, delimita invece un deambulatorio, pavimentato a mosaico, al quale si accedeva tramite le due porte aperte sul muro di fondo delle navate laterali della chiesa.
La particolare disposizione della zona absidale, dotata di un deambulatorio doveva essere funzionale al culto ed alla venerazione di reliquie, che dovevano essere visibili, dal deambulatorio,
attraverso le otto aperture del catino absidale; a supporto di tale ipotesi, sta il rinvenimento, proprio nell’area della prima abside, di una fossa di forma rettangolare – quasi una piccola cripta - interpretabile come reliquario.
Al transetto si accedeva passando al di sotto di un arco trionfale, del quale rimangono due poderose colonne monolitiche di spoglio in marmo cipollino, risalenti ad età romana e sormontate da due capitelli corinzi, con abaco di stile bizantino.
Nella navata centrale, gli scavi hanno riportato alla luce una schola cantorum, che si sviluppa per
la lunghezza dell’intero transetto e di una campata e mezza nella navata; questo dispositivo risulta essere sopraelevato di circa 32 cm rispetto al piano pavimentale della chiesa e doveva essere recintato da un parapetto di marmo.
La facciata originaria dell’edificio è attualmente visibile solo nella navata sinistra, mentre si rinviene in cresta nelle altre due navate; nella facciata si aprivano tre porte, e di quella centrale è stata riportata alla luce la soglia marmorea nella quale sono ancora visibili gli incavi per i battenti del portale.
 
 
Presso la soglia si conserva un pannello musivo in cui si distinguono una cornice a meandri e svastiche in tessere rosse e nere, con un pesce, il nodo di Salomone ed un polipo frammentario, in basso una fascia con motivo ad onde correnti in tessere rosse, e la cornice con cerchi concentrici a croci inscritte, alternate a nodi di Salomone. Altri lacerti musivi dello stesso tenore si trovano anche ai lati della schola cantorum nei pressi delle colonne che sostenevano l'arco trionfale e nel deambulatorio. Le navate laterali erano invece ricoperte da stesure in opus spicatum.
Connesso infine con l’edificio di culto è un ambiente rinvenuto alle spalle della seconda abside, nella navata centrale dell’Incompiuta; i setti murari riportati alla luce delimitavano delle tombe a fossa (la più antica delle quali si colloca alla stessa quota del mosaico del deambulatorio), databili a partire dalla seconda metà del VI secolo, e denotano quindi la presenza di sepolture ad sanctos, in un momento di poco successivo alla conclusione dei lavori di costruzione della chiesa.
 
L'area retroabsidale: in prossimità dell'abside si nota il pavimento con resti di decorazione musiva del deambulatorio, in primo piano le sepolture ad sanctos.
 
Per quanto riguarda la particolare planimetria, segnatamente per la presenza del deambulatorio retrostante all'abside, la chiesa somiglia alle cosiddette basiliche circensi erette in epoca costantiniana (cfr. ad esempio la basilica cimiteriale del complesso di S.Costanza e quella della Villa deiGordiani a Roma) e concepite come veri e propri cimiteri coperti.
 
Dal Chronicon Cavense, si apprende la notizia, riferita all’anno 942, di Gisulfo, principe di Salerno, il quale su richiesta del proprio congiunto Indulfo, fece costruire un monastero benedettino, presso la chiesa della SS. Trinità di Venosa. Nel 1059, alla presenza di papa Niccolò II la chiesa viene trasformata da cattedrale in abbaziale.
La facciata paleocristiana, mantenuta nella sua integrità strutturale per tutta l’età longobarda, viene parzialmente demolita in corrispondenza della navata centrale e di quella destra, che vengono prolungate per una lunghezza di due campate; lo spazio così creatosi viene scandito dalla posa in
opera di un nuovo pilastro in muratura, in asse con quelli dell’età paleocristiana.

All'angolo NW della facciata, perfettamente in asse con l’ingresso alla navata sinistra dell’edificio venne costruita una torre a pianta quadrata. Ad W della torre si individua una muratura di orientamento N-S,

parallela ad un’altra muratura di pari orientamento ma di lunghezza maggiore; queste due murature, costituiscono i due muri perimetrali di quella che sembrerebbe potersi ritenere una cappella a navata unica, delimitata sul lato N da una muratura ad andamento curvilineo, da interpretare come muro absidale; la zona presbiterale doveva essere separata dal resto dell’aula liturgica (quadratum populi) da un muro di orientamento E-W, all’estremità E del quale un’apertura dava accesso alla zona absidale e ad un piccolo vano quadrangolare (sacrestia?).

 


 

1. Aula liturgica

2. Area absidale
3. Sacrestia (?)
4. Torre di facciata prenormanna (longobarda)
 
 
Tra la cappella e la parte longobarda della Foresteria, viene edificato una sorta di avancorpo monumentale, oggi definito atrio, che comprende anche una scala che conduce al piano superiore della Foresteria, la cui costruzione andrebbe riferita all'abate Berengario (1066-1096) e avrebbe costituito per un certo periodo la facciata monumentale della chiesa, articolata su due livelli, con il piano terra in cui si aprivano tre archi, ed il piano superiore sistemato con un loggiato ad archetti ciechi in cui furono reimpiegati pezzi scultorei di età romana. Questa facciata sarebbe stata successivamente obliterata dalla scala di accesso alla Foresteria.
 
Il loggiato ad archetti ciechi
 
Frammento scultoreo di età romana reimpiegato nella decorazione del loggiato

Durante l’epoca sveva, e a seguito dell’abbandono definitivo del cantiere dell’Incompiuta, le ristrettezze economiche in cui versava l’abbazia, spinsero gli abati a rimettere mano alla Chiesa Vecchia, con una serie di lavori di restauro e consolidamento riguardanti principalmente la sistemazione delle navate e della cripta.
All’interno della chiesa, viene posto in opera un nuovo pavimento in mattoni di cotto, poggiato direttamente sull’opus tesselatum della fase normanna; il piano di calpestio della chiesa viene rialzato di ulteriori 20 cm rispetto alla quota paleocristiana. Sullo stesso tessellato normanno furono posti in opera tre grandi archi a sesto acuto trasversali nella navata centrale, insieme ai relativi archi di controspinta a tutto sesto nelle navate laterali.
Nel 1287, viene costruito il portale d’ispirazione arabeggiante che dà accesso alla chiesa dal cosiddetto atrio, opera firmata dal Magister Palmerius, realizzata sotto il regime abbaziale di Barnaba, secondo l’iscrizione dedicatoria, utilizzando frammenti scultorei di recupero tra cui, inserita alla base della lunetta, una lastra marmorea proveniente dal sarcofago di Roberto il Guiscardo.
 
Il Portale di Palmerio
 
Nel 1297 papa Bonifacio VIII soppresse l'abbazia, consegnandola – insieme a tutti i suoi beni ancora cospicui - all'Ordine Ospitaliero che ne rimase proprietario fino al 1808.
E' in questa fase che il palazzetto della Foresteria assume la forma visibile ancora oggi; vengono aperte le finestre bifore e la trifora nei saloni al primo piano, e si prolunga il pianoterra porticato, con l’aggiunta di poderosi pilastri quadrangolari in muratura; nei muri del piano terra si aprono strette finestre ‘a bocca di lupo’, le quali lasciano passare poca luce, conferendo ai paramenti murari in cortina di blocchetti lapidei una maggiore plasticità.
Sul lato meridionale, dei due archi della fase longobarda, viene tamponato quello di sinistra, mentre una parete continua, nella quale si apre solo una piccola porta a tutto sesto, contraddistingue l’ampliamento svevo-angioino della Foresteria; al piano superiore, si aprono una bifora (frutto dei restauri del 1932), accanto alla quale si trova una piccola monofora arcuata, ed una coppia di finestre monofore arcuate (anch’esse frutto dei restauri del 1932), di dimensioni maggiori della precedente.
 
La Foresteria, a sinistra la facciata del cosiddetto atrio della chiesa
Affreschi:
Nel cosiddetto atrio della chiesa, alla sinistra del portale del Magister Palmerius, viene realizzato nel XIV secolo un affresco raffigurante S. Cristoforo con in braccio Gesù Bambino, che doveva avere funzione di buon augurio per il viaggio di ritorno dei pellegrini.
Al pieno XV secolo sono invece riferibili un'Annunciazione ed una Madonna con Bambino.
L’Annunciazione si trova sul primo pilastro destro della navata centrale, e rappresenta la Vergine in trono, con un libro aperto sulle gambe e con indosso una lunga veste di colore azzurro; in basso a sinistra si vede l’arcangelo Gabriele (di dimensioni molto ridotte rispetto alla Madonna), raffigurato quasi come un fanciullo, con una veste dorata e le ali di colore rosso fuoco.
 

La Madonna con Bambino è dipinta invece sul primo pilastro di sinistra della navata centrale.
 
 
Al XIV secolo è invece riferibile l'affresco raffigurante S.Caterina d'Alessandria sul terzo pilastro di sinistra della nave.
 
 
La santa è ritratta con i capelli biondi cinti da una corona, e con indosso un abito bianco recante
una veletta sotto il mento ed un motivo esagonale sul petto, il tutto entro una cornice di composizione geometrica, che sembra richiamare motivi decorativi di origine cosmatesca.
Immediatamente al di sotto della santa è visibile l’affresco della Deposizione, anch’esso del XIV
secolo: il busto del Cristo emerge dal sepolcro con a sinistra la Vergine, con il viso sofferente e le mani protese verso il Figlio, e S. Giovanni, ritratto con un abito verde ed un manto chiaro, nell’atto di strapparsi le vesti dal dolore. Coeva è anche la raffigurazione del Santo vescovo (S.Nicola?), a sinistra sullo stesso pilastro.
Al XIII secolo si data la realizzazione, sul secondo pilastro destro della navata centrale, dell’affresco di stile bizantino raffigurante S. Apollonia (successivamente obliterato dalla costruzione di una muratura più tarda). Sull’altra faccia del pilastro si vede l’affresco dell’Arcangelo Gabriele o Angelo Annunciante, databile alla metà del XIV sec.)

L'Angelo annunciante

Di poco successivo è invece l’affresco raffigurante S. Donato, dipinto sul secondo pilastro di sinistra, e datato tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo.
Affreschi della cripta:
 
 
Nella nicchia al di sopra dell’altare a blocco della cripta è raffigurata una Crocefissione databile al XIII secolo. Ai lati di questo affresco, se ne trovano altri due, recanti San Pietro a sinistra, raffigurato con le chiavi, e San Giacomo il Maggiore a destra; entrambi sono coevi alla Crocefissione e sembrano formare con quest’ultima una sorta di trittico.
Altri brani di affreschi degni di nota sono il gruppo con la Madonna con Bambino e santi, il S. Antonio Abate ed un’altra Crocifissione purtroppo mutila della parte superiore.
 
Affresco raffigurante la Madonna con il Bambino e santi

A sinistra della Vergine una figura femminile con un piccolo animale in braccio (Maria di Cleofa?); a destra invece, l’Arcangelo Michele, una figura femminile che porta una capsella (scrigno) (Maria Maddalena?), ed un vescovo. In basso, a destra della figura femminile con la capsella, si vede una figurina femminile di piccole dimensioni, da identificare con l’anonima committente dell’affresco. Il fulcro della composizione sembra comunque essere l’Arcangelo Michele al centro, con la lancia nella mano destra, il libro nella sinistra ed il diavolo in forma di drago sotto i piedi. Questa posizione centrale dell'arcangelo si spiega facilmente se si pensa agli interventi di abbellimento e restauro promossi dai sovrani angioini nel santuario micaelico di Monte Sant’Angelo sul Gargano, meta di pellegrinaggio sin dal V secolo.
Un particolare interessante è la fattura delle aureole, realizzate nell’intonaco fresco, con incavi atti ad accogliere decorazioni in smalti colorati o in tesserine di mosaico.
 
Monumenti funebri
 
Il sepolcro degli Altavilla
 
 
Roberto il Guiscardo attorno al 1069, decise di tumulare nella prima chiesa abbaziale - accanto ai resti del fratello e predecessore Umfredo - anche quelli degli altri fratelli : Guglielmo detto Braccio di Ferro, iniziatore della conquista normanna del Meridione, e Drogone. Il ruolo di mausoleo dinastico così conferito alla Trinità venne ancor più rafforzato nel 1085 dalla sepoltura dello stesso Guiscardo voluta dalla seconda moglie Sichelgaita e favorita dall'abate Berengario, giunto dal monastero normanno di Saint-Évroul-sur-Ouche (antica Uticum) attorno al 1063.
La sistemazione delle spoglie dei primi duchi normanni in un unico monumento sepolcrale - attualmente collocato nella navata destra - si deve, in base alle cronache del tempo, al balivo dell'Ordine giovannita Agostino Gorizio Barba da Novara, a sua volta sepolto nella basilica nel 1560.
L'arcosolio è decorato da una brutta Crocefissione ai lati della quale si dispongono inginocchiati due cavalieri. Sul timpano lo stemma della casa d'Altavilla affiancato da quelli dei cavalieri di S.Giovanni.
 
Ritratto di Agostino Gorizio Barba da Novara.
 
Il ritratto, opera di Giovanni Todisco, venne fatto eseguire dal figlio Gerolamo, nel 1566, affrescando la superficie del quarto pilastro di destra della navata centrale; la figura del cavaliere è vestita con il mantello nero che contraddistingue l’Ordine dei Cavalieri di S.Giovanni e la spada al fianco, inginocchiato davanti ad una Madonna con Bambino che emerge da una nuvoletta; lo sguardo è assorto in preghiera con il viso rivolto verso il breviario aperto sull’inginocchiatoio.
 
Il sepolcro di Aberada (Alberada) di Buonalbergo
 
 
Collocato nella navata sinistra, si presenta sotto la forma di un sarcofago sormontato da frontone triangolare sorretto da colonne con capitelli a foglia di vento. Aberada (Alberada) di Buonalbergo era la prima moglie di Roberto il Guiscardo, da lui ripudiata nel 1059 per poter sposare la principessa longobarda Sichelgaita di Salerno e cementare l'alleanza tra i due popoli. Fu la madre di Boemondo I d'Antiochia, il primogenito del Guiscardo, a cui fa riferimento anche la scritta latina che corre lungo l'architrave del frontone:
Quest'arca contiene Aberada, moglie del Guiscardo.
Se chiedi del figlio, quello (lo) tiene il Canosino.
A Canosa si trova infatti il mausoleo dove riposano le spoglie di Boemondo.
 
Il sepolcro degli Acciaiuoli
 
 
Attualmente collocato nella navata sinistra accanto a quello di Aberada, conteneva le spoglie di due membri - Raffaele (morto nel 1458) ed Emilio (morto nel 1470) - della famiglia degli Acciaiuoli che tenne la Signoria di Melfi tra il XIV ed il XV secolo. E' simile nell’impostazione a quelli degli Altavilla e di Aberada, presentando un arcosolio in pietra, con terminazione a timpano.
Il sarcofago è stato trasferito a Roma negli anni ’50 del XX secolo da un discendente della famiglia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 




 
 
 

 
 

 

 

 

venerdì 29 agosto 2014

Mura e porte di Melfi

Mura e porte di Melfi

Le mura bizantine

La prima cittadella fortificata dal catapano bizantino Basilio Boiannes (cfr. scheda Catepanato d'Italia) nel 1018 comprendeva un modesto abitato concentrato nell'attuale rione di S. Lorenzo.
Questa prima cinta muraria, intervallata da torrette di media dimensione, a forma di parallelepipedo con piccole feritoie e dotate di spalto, non era particolarmente elevata, rafforzava infatti le difese di un insediamento già naturalmente protetto dai ripidi pendii su cui sorgeva. La roccaforte di Melfi divenne il perno del sistema difensivo bizantino volto a presidiare i valichi appenninici dalle incursioni longobarde. A quest'epoca risale il tratto della cinta muraria attuale che digrada dal castello ai resti della Porta Calcinaia. La porta, di cui rimane oggi in piedi solo parte dei corpi laterali, doveva il nome al fatto di trovarsi nei pressi della zona dove erano concentrate le botteghe dei fornaciari e dei calcinai, destinate alla cottura dei laterizi e della calce da costruzione.

Porta Calcinaia

Il perimetro difensivo bizantino si chiudeva probabilmente con un’altra porta nel punto più meridionale, presso l’attuale piazzetta con fontana di vico Pendìno. Superata questa porta le mura proseguivano verso est fino alla chiesa bizantina di San Nicola de Platea, da qui ripiegavavano verso nord lungo l’attuale asse di vico Neve e Gradelle, per chiudersi nel punto più alto, dove poi sarebbe sorto il castello.
Con l'avvento dei Normanni e l'elezione di Melfi a capitale del ducato di Puglia e Calabria, la città si espanse verso nordest e conseguentemente la cinta muraria fu estesa ad abbracciare anche quest'area. In essa fu aperta una nuova porta (oggi non più esistente) da cui partiva la strada che si dirigeva a Troia e che pertanto prese il nome di Porta Troiana.
Con la proclamazione del Regno di Sicilia (1130), la città conobbe una nuova espansione per volere di re Ruggero II d'Altavilla. In questo periodo fu costruito il nuovo accesso principale alla città, prospicente l'attuale piazza Umberto I, che prese il nome di Porta di Santa Maria o Porta Balnea, rinforzata dai Caracciolo, infeudati a Melfi dal 1418 al 1528, con un rivellino, venne fatta abbattere senza nessuna ragione particolare dopo il terremoto del 1851. La cinta muraria venne rinforzata ed adeguata al fuoco d'artiglieria soprattutto da Sergianni II Caracciolo tra il 1456 (anno in cui Melfi fu colpita da un devastante terremoto) ed il 1460. Questa ristrutturazione conferì alle mura l'aspetto che hanno attualmente. Coprono un perimetro di circa 4 km. e sono rinforzate da quindici torrioni (alcuni ridotti a poco più che ruderi).


Porta venosina

E' l'unica porta rimasta in piedi e prende il nome dalla destinazione della strada che l'attraversava e che conduceva appunto a Venosa. Fu restaurata da Federico II – che attraverso di essa faceva il suo ingresso in città - che vi appose una lapide che recitava: L’antichità mi ha distrutta, Federico mi ha riparata Melfi, nobile città della Puglia circonvallata da mura di pietra, celebre per salubrità dell’aria, per affluenza di popolazioni per fertilità dei suoi campi, ha un castello costruito su una rupe ripidissima opera mirabile dei Normanni.

 
Il suo aspetto attuale è frutto della già citata ristrutturazione della cinta muraria voluta da Sergianni II Caracciolo che fece anche sostituire la lapide federiciana con un'altra ancora visibile anche se non più leggibile.
Presenta un portale a sesto acuto con l’archivolto a toro scanalato, sostenuto da capitelli a tronco di piramide rovesciata, ed è protetta da un massiccio bastione cilindrico. Ai lati del portale sono incassati due bassorilievi, quello a destra raffigura il basilisco, simbolo della città, quello di sinistra è abraso ma dovrebbe raffigurare il leone rampante dei Caracciolo.

Il basilisco

Nel 1348 Melfi, forte delle sue mura e ben diretta da Lorenzo Acciaiuoli, fu l’unica città del Regno di Napoli a non arrendersi alle truppe del re Luigi d’Ungheria, sostenendo un assedio di sette mesi.
In ricompensa di quest’atto di valore gli Acciaiuoli la ricevettero in feudo nel 1349 dalla regina Giovanna I d'Angiò (1343-1381) e la tennero fino al 1418 quando la regina Giovanna II d'Angiò-Durazzo (1414-1435) la concesse in feudo al suo amante Sergianni Caracciolo.
Nel marzo del 1528, difesa dal duca Giovanni Caracciolo al comando di sei compagnie di fanti ed un nutrito contingente di cavalleria, fu attaccata dalle forze francesi, al comando del condottiero di ventura spagnolo Pietro Navarro e rafforzate dai mercenari delle Bande Nere di Orazio Baglioni.
La resistenza melfitana è accanita ma di breve durata. Le artiglierie francesi fanno strage dei difensori e scatenano incendi lungo le mura. Un primo assalto è respinto, ma infine gli assedianti passano. Benché rapida, la battaglia è cruenta: le fonti riferiscono di ingenti perdite - si parla di cinquecento uomini - anche da parte francese (sessanta sarebbero stati i caduti tra i mercenari delle Bande Nere), alcuni periti per fuoco amico sotto il violento tiro di artiglieria ordinato dal Navarro.
Forse anche per queste inattese e gravi perdite, i Francesi misero duramente a sacco la città. Cadute le mura, il duca si asserragliò nel celebre castello della città, ma infine si arrese in cambio della sua vita e passò ai Francesi. I suoi invece vennero passati per le armi.
Sconfitti i Francesi, Carlo V punì il tradimento del duca privandolo del feudo e assegnandolo all'ammiraglio genovese Andrea Doria, provvidenzialmente ed inaspettatamente accorso in suo aiuto.

giovedì 28 agosto 2014

La chiesa rupestre di S.Margherita, Melfi

La chiesa rupestre di S.Margherita, Melfi
Ubicata presso il Cimitero comunale, km 1 della strada statale Melfi-Rapolla.
Visita accompagnata su prenotazione. Tel. 0972 239751 (Pro Loco)



L'organizzazione architettonica del santuario, interamente scavato nel tufo vulcanico, rimanda senz'altro ad un gusto occidentale: l'unica navata è divisa in due moduli coperti da crociere a sesto acuto con le creste ben in evidenza ed è fiancheggiata da quattro cappelle voltate a botte e di diversa profondità; la seconda cappella di destra, attraverso un piccolo valico, continua in un vano secondario di forma irregolare (probabilmente l'alloggio del guardiano della chiesa).
L'abside e la prima cappella a sinistra sono fornite di altare, sopraelevato rispetto al piano della cripta e formato da un semplice dado di roccia aderente alla parete; due sedili di pietra corrono lungo tutto il lato perimetrale delle due cappelle più lontane dall'ingresso.

La decorazione parietale, realizzata - caso quasi unico nella zona – stendendo una base preparatoria di intonaco ed eseguita in fasi e da mani diverse, abbraccia un'arco temporale compreso tra gli ultimi decenni del XIII secolo e la prima metà del secolo successivo. Orientativamente si può osservare nella realizzazione degli affreschi la persistenza di stilemi bizantini di carattere ripetitivo (P.Vivarelli) accanto all'introduzione di elementi innovativi sviluppatisi localmente nella trasposizione delle formule bizantine o sotto l'influsso della pittura romanica e gotica.

Gli affreschi ricoprono tutte le pareti, tranne le cappelle vicine alla zona absidale, e presentano i seguenti soggetti:

Prima cappella laterale sinistra
1. S. Michele Arcangelo.
2. Madonna in trono con Bambino.
3. S. Giovanni Evangelista.
4. S. Margherita.
5. S. Michele Arcangelo.
6. S. Giovanni Battista.
7. Cristo in trono.
8. Contrasto dei vivi e dei morti.

In questa cappella la disposizione dei soggetti non segue il rigido programma iconografico bizantino: il Cristo in trono è posto infatti su una parete laterale, mentre al di sopra dell'altare è collocata la figura dell'Arcangelo Michele, ripresa anche in una raffigurazione della parete di sinistra.

Cristo in trono
 
Le due figure di S. Michele sono iconograficamente simili: sotto il manto rosso mostrano la cintura e la stola gemmata degli angeli bizantini; nella sinistra reggono il globo crucifero, nella destra una lancia che attraversa trasversalmente tutto il corpo fino ad un serpente posto ai loro piedi. I volti, incorniciati dai capelli biondi disposti ordinatamente in due bande che scendono sul collo, sono lunghi con grandi occhi rotondi e menischi accentuati.
 
S.Michele arcangelo, fancheggiato da S.Giovanni Battista, a ds., e da S.Margherita, a sn. 
 
Il contrasto dei vivi e dei morti.
Nella parete destra della cappella, immediatamente visibile dall'ingresso è rappresentato il tema dell'Incontro dei tre morti e dei tre vivi – che avrà ampia diffusione nell'iconografia medievale – di origine orientale (1) compare in Occidente nel Dict des trois morts er des trois vifs di Baudouin de Condé (1275): tre giovani cavalieri, nel corso di una cavalcata, incontrano tre morti "viventi", che li ammoniscono dicendo: «Ciò che sarete voi, noi siamo adesso. Chi si scorda di noi, scorda se stesso».
Al di là del tema trattato, anche la brusca maniera con cui la scena s'inserisce nella stesura delle raffigurazioni contigue fa propendere per una datazione più tarda rispetto agli altri affreschi della cappella.
 
 
Raffaele Capaldo ha avanzato l'ipotesi che nel gruppo dei vivi - formato da un uomo maturo, paludato di porpora e d’ermellino (e recante sul braccio uno sparviero dalle tipiche iridi chiare), da una bellissima dama, bionda e con gli occhi cerulei, ed un fanciullo, biondo anch’esso – sia ritratta la famiglia imperiale sveva (Federico II, la sua terza moglie Isabella d'Inghilterra ed il figlio Corrado IV avuto dalla precedente consorte Jolanda di Brienne).
All'obiezione che l'ipotetico Federico II non indossa il paludamento imperiale, Capaldo risponde che la figura dell'imperatore doveva essere immediatamente riconosciuta dai frequentatori dell'umile chiesetta, popolani e contadini che erano abituati a vederlo in tenuta venatoria, durante le sue cacce nelle campagne e non certo con indosso le insegne del potere imperiale. Nel mantello di porpora bordato d'ermellino si può inoltre comunque ravvisare un accessorio regale.
Un altro elemento che concorre a sostenere l'identificazione sarebbero i gigli (2) ed il fiore ad otto petali presenti sulle borse di tutti e tre i personaggi, i primi facilmente collegabili all'araldica degli Hohenstaufen e l'altro particolarmente amato dall'imperatore tanto da essere ricamato sul bordo della tunica con cui venne seppellito.
 
particolare della tunica mortuaria di Federico II
 
L'ipotetico Federico II raffigurato nella chiesa a confronto con una rappresentazione dell'imperatore contenuta nell'edizione miniata della Chronica regia coloniensis, 1240 c.ca, conservata presso la Biblioteca reale di Bruxelles.
 
Sulla base di questa contestualizzazione, Capaldo ipotizza anche una possibile datazione dell'affresco compresa tra il 1235 (matrimonio tra Federico II e Isabella d'Inghilterra) ed il 1241 (data di morte di Isabella).

Prima cappella laterale destra
9. Martirio di S. Andrea (parte destra della volta). Il santo, con una grande barba irsuta sproporzionata alle dimensioni del corpo, è legato al tronco di un albero a forcella (3) da due carnefici posti lateralmente, di una mobilità nei gesti (posizione a tre quarti del corpo) e nei particolari descrittivi (gambe arcuate, cappuccio a punta) che contrasta con la durezza legnosa del martire.
 
 
10. Un volto nimbato ed una testina non identifìcabili (immediatamente sotto l'episodio di S. Andrea).
11. Nel registro inferiore della parete di fondo: una piccola testa femminile con manto e nimbo (a destra) e S. Benedetto (al centro), oggi illeggibile tranne parte del cappuccio, un occhio e il nimbo (il Guarini potè ancora leggere la scritta lacunosa "S. Ben(ed)ic/tus” oggi scomparsa.
12. Martirio di S. Stefano (nella lunetta superiore). Al centro la figura del santo, a destra due carnefici raffigurati in maniera grottesca e a sinistra due personaggi di incerta identificazione. Il primo potrebbe essere S.Paolo che assistette a questo martirio prima di convertirsi. Tutti scagliano pietre contro il protomartire.
 
13. Una santa coronata anonima (nella parte sinistra della volta a botte).
14. Frammento di una scena di battaglia con parti di lance ed altre armi come le alabarde in uso nel Trecento (immediatamente sotto la santa anonima).
15. Martirio di S. Lorenzo. Il santo è disteso sulla graticola mentre il fuoco, alimentato da due carnefici di cui s'intravedono le teste iincappucciate, inizia ad avvolgerne il corpo. Un terzo carnefice gli preme sul petto un bastone di ferro mentre in alto un angelo con un aspersorio cerca di lenire le sofferenze del santo. Sulla destra un funzionario indica all'imperatore Valeriano il martirio dl santo. In alto ed al centro del riquadro la dextera dei in atto benedicente esce da una manica di festoni concentrici.
 
 
16. S. Lucia e S. Caterina.
 
Zona absidale
17. Sull'archivolto absidale: cinque medaglioni (in quello centrale Cristo Pantocratore, negli altri i simboli dei quattro Evangelisti); S. Nicola (in basso a destra).
18. Nell'intradosso dell'arcone absidale: S. Basilio e S. Vito (nei due pennacchi, rispettivamente a destra e a sinistra); S. Guglielmo e S. Elisabetta (al centro dell'intradosso).
S.Basilio
 
S.Basilio, in abito episcopale, con la mitra bassa gemmata, il pallium con tre croci e il pastorale che attraversa trasversalmente il corpo, appare identico a quello raffigurato nella cripta di S. Vito vecchio a Gravina: contrariamente alle rappresentazioni osservate in altre cripte ed alla immagine più comune del Santo, questo ci appare canuto e senza la tipica barba appuntita sia a Melfì che a Gravina.
Il Weitzmann confronta l'affresco di Gravina con la produzione di un pittore individuato come « the Master of the Knights Templars » e giunge ad identificare questo Maestro come di origine italiana meridionale e a datare la sua opera intorno al 1280.
 
S.Nicola
 
Nel vicino S. Nicola compaiono altri elementi che sono caratteristici delle icone crociate del Regno di Gerusalemme. Il santo è inscritto in una edicola dipinta, formata da una arcata decorata a palmette e retta da colonnine esili e capitelli ornati ed il manto del santo è cosparso di quella decorazione a puntini disposti a grappolo, che è quasi una sigla del Maestro dell'Ordine dei Templari.
19. Due sante, quella a destra (probabilmente S.Cordula) con la palma di martire nella mano, quella a sinistra con una lunga croce con bandiera crociata (S. Orsola).
20. S. Paolo.
21. S. Margherita di Antiochia (S.Marina). La santa titolare della chiesa è raffigurata al centro dell'abside riccamente vestita e con una corona tricuspidale con in mano una croce a doppia traversa. Otto scene che ne illustrano il martirio sono disposte in due fasce laterali che la fiancheggiano. Nonostante il grave deterioramento della pittura, è stato possibile identificare i passi narrati della vita della santa: l'incontro con il prefetto Olibrio, mentre Margherita custodisce le sue pecore; la santa condotta dinanzi al prefetto viene interrogata; imprigionata, è tentata da un demonio in forma di drago gigantesco; sempre nel carcere le appare un altro diavolo; legata ad una colonna, il suo corpo è bruciato da tizzoni ardenti; è dilaniata da unghie di ferro; è immersa in una caldaia di olio bollente; è decapitata mentre la sua anima sale al cielo.
 
Sotto il profilo iconografico va rilevato che – mentre le scene dei primi sette riquadri sono riportate dalla Legenda aurea - in nessuna fonte agiografica si trova traccia dell'episodio raffigurato nell'ultimo, in cui la santa trasportata in cielo appare nell'atteggiamento di una figura seduta con la destra benedicente e la sinistra che regge una croce mentre gli angeli che la trasportano hanno le braccia coperte da bende in segno di rispetto alla maniera greca.
22. S. Pietro.
23. Nella volta a botte della cappella absidale: Cristo Pantocratore con due angeli.

 
Note:

(1) L'origine del tema va rintracciata in un'area culturale buddistico-persiano-islamica. La sua diffusione in Italia fu mediata ο dai francescani, che avevano un loro centro a Pechino, o dai rapporti tra la corte di Federico II e il mondo culturale arabo, anche con il movimento ascetico musulmano sufita, in cui confluirono specifici elementi buddisti.
(2) I gigli compaiono anche sullo stemma angioino, alla cui epoca – successivamente al loro avvento al potere nel 1266 dopo la battaglia di Benevento – altri autori riferiscono l'affresco.
(3) La crocefissione del santo ad un albero a forcella anzichè alla caratteristica croce ad X che porta il suo nome è piuttosto anomala in ambito italiano mentre si ritrova più frequentemente in alcune miniature tedesche del XIII secolo.